3830 recensioni a vostra disposizione!
   
 

AMARCORD - RICORDANDO FEDERICO FELLINI
  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 novembre 1993
 
Ricordando Federico Fellini
 

Ad un genio non occorre scomparire per vivere in eterno: gli basta farsi aggettivo. Diciamo dantesco, shakespeariano o kafkiano; ed allo stesso modo, anche se da qualche anno in meno, chapliniano, bunueliano, bergmaniano. Forse non a caso, Chaplin, Bunuel, Bergman ( assieme a Kurosawa, Kubrick, Resnais ) erano i cineasti che Federico Fellini citava piu' di spesso: come loro, non aveva dovuto aspettare la propria morte perché nel mondo si dicesse “ felliniano “.


Ma cosa significa, esattamente, felliniano ? Pure qui non a caso, traduce qualcosa d'indefinibile, come sospeso a mezz'aria. Qualcosa di estremamente reale, innanzitutto: una creatura concreta, carnale, abnorme. Un nano, o una gigantessa: un individuo in carne ed ossa che si fa fenomeno, mostro. E poi qualcosa - tutto all'opposto - di astratto ed impalpabile: una sensazione ed una dimensione, uno stato d'animo od un avvenimento che da concreti, aneddotici diventano immateriali, fantastici. Il cinema di Fellini è fatto a questo modo: un viaggio dalla realtà alla fantasia, un rinvio da questa alla concretezza, ad una visione globalizzante della società, persino dell'attualità, in un incessante andirivieni.


Sempre non a caso, quindi, la fantasia sfrenata di un giovane disegnatore di fumetti al Marc'Aurelio aveva avuto bisogno - per concretizzare, in una serie di film destinati a diventare immortali, questo itinerario particolare - dell'incontro con due immense personalità'. Quella del piu' puro dei neorealisti italiani, Roberto Rossellini, che lo prende con sé durante le riprese di quel momento insostituibile rappresentato da PAISA'; e quella di Ennio Flaiano, con il quale Federico firma, nel 1953, I VITELLONI.


E' con le sceneggiature di Flaiano ( senza dimenticare le musiche di Nino Rota ) che nascono successivamente LA STRADA, IL BIDONE, LE NOTTI DI CABIRIA, LA DOLCE VITA ( il film a partire dal quale, come osservava Serge Daney, Fellini rinuncia a raccontare una sola storia, per accumulare una serie di episodi e di personaggi ), OTTO E MEZZO e, nel 1965, GIULIETTA DEGLI SPIRITI ( l'ultimo, e meno felice, della lunga collaborazione con lo scrittore ).


Con la scomparsa di Flaiano, il cinema di Federico Fellini si muta in qualcosa d'altro, quasi che il mostro contenuto nell'artista assumesse nuove forme. Continua a rimanere il cinema di un uomo - sé stesso, rimesso in scena infinitamente, in una rinascita esaltante e talvolta esasperante dalle proprie ceneri - ma cessa di essere quello “ su “ un uomo, a proposito di uno, o piu' personaggi. A partire da SATYRICON, in seguito attraverso I CLOWNS, ROMA, AMARCORD, CASANOVA, PROVA D'ORCHESTRA, LA CITTA' DELLE DONNE, E LA NAVE VA, fino ai piu' recenti GINGER E FRED, L'INTERVISTA e LA VOCE DELLA LUNA nel 1990, quello di Fellini assomiglia sempre di piu' ad un immenso affresco: l'osservazione visionaria - ed anche in questo senso inimitabile - di un pittore. Piu' che quella di un regista cinematografico, legato ad una sceneggiatura, a delle psicologie, delle progressioni drammatiche.


Il cinema di un uomo su sé stesso: su un sé stesso che - come scriveva Ingmar Bergman nel suo autobiografico “ Lanterna Magica “, accomunandolo in questo ad un altro celebre visionario, Andrei Tarkovski - si muove nello spazio dei sogni. Un autoritratto , eternamente ricominciato, nello spazio dei sogni: condannato dalle due costanti del proprio genio a muoversi in eterno fra i suoi due poli di attrazione - il reale ed il fantastico - Fellini, ancora meno di qualsiasi altro suo collega cineasta, non puo' allora sottrarsi a quella che diventa la sola possibilità di guardare alla sua opera: la ricerca della qualità di questo sogno. Che è poi l' indagine sulla qualità di ogni sguardo cinematografico.


Ecco allora spiegata una delle ragioni per la quale ogni film di Fellini è accolto quasi immancabilmente con entusiasmi deliranti, ma allo stesso tempo con reticenze sconcertanti. Che si possa ancora discutere , ad ogni nuovo film di un monumento consacrato ed ormai ultra settantenne, sulla possibilità o meno di essere annoverati fra i “ felliniani “ ... Questo succede poiché il giudizio - trattandosi di sogni infinitamente ripresi - non verte ormai piu' sull'interesse di un'idea, di un soggetto; o sull'originalità di una sceneggiatura, convenientemente messa in scena. Ma piuttosto - in una sorta d' impietosa, eterna rimessa in questione del tutto assente in altri maestri ormai indiscussi dell'arte del cinema - sulla freschezza d'ispirazione , sulla fertilità di un'inventiva: che non puo' mai esimersi da quel procedimento , seducente e pericoloso, che è l'autocitazione.


Ecco spiegata ancora la ragione per la quale il cinema di Fellini, per esprimersi in tutta la sua grandezza, ha bisogno di ancorarsi ad un fatto, ad una progressione drammatica, ad un personaggio, o ad un avvenimento ben preciso. Se è vero che i film piu' grandi di Fellini, quelli che possiamo rivedere all'infinito senza rischio di cadere nell'ammirazione ma anche nell'irritazione per quella facilità che soltanto i piu' grandi possono permettersi, sono quelli della vena di OTTO E MEZZO, LA DOLCE VITA, CASANOVA, AMARCORD o E LA NAVE VA è proprio perché in queste opere l'arte visionaria dell'autore è sottomessa ad un giogo: quello di dover render conto di un elemento drammatico ( storico, autobiografico, aneddotico, biografico ) ben determinato fin dall'inizio.


Privato di questa costrizione, lasciato se così si puo' dire libero a sé stesso, il talento visionario di Fellini si ringalluzzisce per questa libertà concessagli, e sembra esplodere in mille direzioni. Ma finisce col mordersi la coda. Proprio per questo opere come GIULIETTA DEGLI SPIRITI, SATYRICON, LA CITTA' DELLE DONNE dapprima, per non parlare delle piu' recenti, come l'incantato E LA NAVE VA, o le lucide GINGER E FRED , l'INTERVISTA ( l'indimenticabile, folgorante, anticipatoria sequenza finale: con gli indiani armati di antenne televisive che vanno all'assolto del bivacco dei cineasti ) o LA VOCE DELLA LUNA con Benigni e Villaggio, suscitarono piu' l'ammirazione della critica che una vera e propria identificazione affettiva. Ed il progressivo disamoramento del grande pubblico.


Certo, nel frattempo Federico Fellini era diventato l'italiano piu' famoso: il piu' grande dei cineasti viventi, al quale era permesso di andare fino al limite dei propri sogni. L'artista che, nella propria dismisura, rifletteva genio e sregolatezza di un paese con il quale aveva intrattenuto un rapporto stretto ed ambiguo, fatto di un compiacimento un po' approssimativo e di un fastidio altrettanto superficiale.


Oggi quella medesima Italia lo piange e ne lamenta la scomparsa con un'enfasi del tutto diversa da quella che aveva permesso al Maestro di estrarre i suoi mostri dalla realtà. Un'enfasi che suscita anche malessere: perché', come nel caso di un altro grande maestro relegato in quarantena, Michelangelo Antonioni, meglio avrebbe fatto a tradursi in un riconoscimento concreto. Che avrebbe permesso loro - per un istante lontano da calcoli meschini ed oltretutto spesso errati - di uscire di scena al lavoro, come è successo ai John Huston, e succede ai de Oliveira.


Ma era forse destino - o, piu' ancora, specchio dei nostri tempi - che al poeta dell'impossibile fosse rifiutato il pragmatismo del lavoro per l'accademia delle celebrazioni. A lui, che aveva fatto dire ad uno dei protagonisti del suo ultimo film: “ Come mi piace, piu' che vivere, ricordare. Nulla si sa, tutto s'immagina. “

Per informazioni o commenti: info@films*TOGLIEREQUESTO*elezione.ch

 
Elenco in ordine


Ricerca






capolavoro


da vedere assolutamente


da vedere


da vedere eventualmente


da evitare

© Copyright Fabio Fumagalli 2024 
P NON DEFINITO  Modifica la scheda